Condivido con voi una mail che un amico impegnato mi ha mandato qualche tempo fa.
Mi sembra una riflessione utile per affrontare il delicato momento attuale.
Autore: Latouche, Serge
Di che cosa parliamo se
parliamo di felicità. La differenza sostanziale tra il
ben-avere e il ben-essere e i passaggi necessari per
raggiungerlo.
Bisogna risalire alla
seconda metà del '700 per trovare le origini del pensiero
economico che fa coincidere il «benessere» statistico con il
«ben avere», sebbene nello stesso periodo l'illuminista
napoletano Antonio Genovesi avesse sottolineato la necessità
di una economia fondata sulla ricerca del bene comune. Temi
che si ripropongono oggi con grande urgenza e che richiedono
l'elaborazione di nuovi codici e regole. L'anticipazione di
un intervento a Pordenonelegge
Per concepire e costruire
una società di abbondanza frugale e una nuova forma di
felicità, è necessario decostruire l'ideologia della
felicità quantificata della modernità; in altre parole, per
decolonizzare l'immaginario del PIL pro capite, dobbiamo
capire come si è radicato.
Quando, alla vigilia della
Rivoluzione francese, Saint-Just dichiara che la felicità è
un'idea nuova in Europa, è chiaro che non si tratta della
beatitudine celeste e della felicità pubblica, ma di un
benessere materiale e individuale, anticamera del PIL pro
capite degli economisti. Effettivamente, in questo senso, si
tratta proprio di un'idea nuova che emerge un po' ovunque in
Europa, ma principalmente in Inghilterra e in Francia. La
Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 degli Stati
Uniti d'America, paese in cui si realizza l'ideale
dell'Illuminismo su un terreno ritenuto vergine, proclama
come obiettivo: «La vita, la libertà e la ricerca della
felicità». Nel passaggio dalla felicità al PIL pro capite si
verifica una tripla riduzione supplementare: la felicità
terrestre è assimilata al benessere materiale, con la
materia concepita nel senso fisico del termine; il benessere
materiale è ricondotto al «ben avere» statistico, vale a
dire alla quantità di beni e servizi commerciali e affini,
prodotti e consumati; la stima della somma dei beni e dei
servizi è calcolata al lordo, ossia senza tenere conto della
perdita del patrimonio naturale e artificiale necessaria
alla sua produzione.
Il primo punto è formulato
nel dibattito fra Robert Malthus e Jean Baptiste Say.
Malthus comincia col comunicarci la propria perplessità: «Se
la pena che ci si dà per cantare una canzone è un lavoro
produttivo, perché gli sforzi che si fanno per rendere
divertente e istruttiva una conversazione e che sicuramente
offrono un risultato ben più interessante, dovrebbero essere
esclusi dal novero delle produzioni attuali? Perché non vi
si dovrebbero comprendere gli sforzi che dobbiamo fare per
moderare le nostre passioni e per diventare obbedienti a
tutte le leggi divine e umane che sono, senza possibilità di
smentita, i beni più preziosi? Perché, in sostanza, dovremmo
escludere un'azione qualsiasi il cui fine sia quello di
ottenere il piacere o di evitare il dolore, sia del momento
che nel futuro?».
Materiali e immateriali
Certo, ma è Malthus stesso
poi a osservare che questa soluzione porterebbe direttamente
all'autodistruzione dell'economia come campo specifico. «È
vero che in tal modo potrebbero esservi comprese tutte le
attività della specie umana in tutti i momenti della vita»,
nota giustamente. Infine, aderisce al punto di vista
riduttivo di Say: «Se poi, insieme a Say», scrive Malthus
«desideriamo fare dell'economia politica una scienza
positiva, fondata sull'esperienza e capace di dare risultati
precisi, dobbiamo essere particolarmente precisi nella
definizione del termine principale di cui essa di serve
(cioè, la ricchezza) e comprendervi solamente quegli oggetti
il cui aumento o diminuzione siano tali da potere essere
valutati; e la linea più ovvia e utile da tracciare è quella
che separa gli oggetti materiali da quelli immateriali».
In accordo con
Jean-Baptiste Say, che definisce così la felicità del
consumo, non molto tempo fa Jan Tinbergen proponeva di
ribattezzare il PNL semplicemente FNL (felicità nazionale
lorda). In realtà, questa pretesa arrogante dell'economista
olandese è solo un ritorno alle fonti. Se la felicità si
materializza in benessere, versione eufemizzata del «ben
avere», qualsiasi tentativo di trovare altri indicatori di
ricchezza e di felicità sarebbe vano. Il PIL è la felicità
quantificata.
È facile condannare questa
pretesa di equiparare felicità e PIL pro capite, dimostrando
che il prodotto interno o nazionale misura solo la
«ricchezza» commerciale. In effetti, dal PIL sono escluse le
transazioni fuori mercato (lavori domestici, volontariato,
lavoro in nero), mentre invece le spese di «riparazione»sono
contate in positivo e i danni generati (esternalità
negative) non vengono dedotti, neppure la perdita del
patrimonio naturale. Si dice ancora che il PIL misura gli
outputs o la produzione, non gli outcomes o i risultati.
È appropriato ricordare il
bellissimo discorso di Robert Kennedy (scritto probabilmente
da John Kenneth Galbraith) pronunciato qualche giorno prima
del suo assassinio. «Il nostro PIL (...) include
l'inquinamento dell'aria, la pubblicità delle sigarette e le
corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulle strade.
Include la distruzione delle nostre foreste e la scomparsa
della natura. Include il napalm e il costo dello stoccaggio
dei rifiuti radioattivi. In compenso, il pil non conteggia
la salute dei nostri bambini, la qualità della loro
istruzione, l'allegria dei loro giochi, la bellezza della
nostra poesia o la saldezza dei nostri matrimoni. Non prende
in considerazione il nostro coraggio, la nostra integrità,
la nostra intelligenza, la nostra saggezza. Misura qualsiasi
cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere
vissuta».
La società economica della
crescita e del benessere non realizza l'obiettivo proclamato
dalla modernità, cioè: la felicità più grande per il maggior
numero di persone. Lo constatiamo chiaramente. «Nel XIX
secolo, nota Jacques Ellul, la felicità è legata
essenzialmente al benessere, ottenuto grazie a mezzi
meccanici, industriali, e grazie alla produzione. (...) Una
tale immagine della felicità ci ha condotti alla società del
consumo. Adesso che sappiamo per esperienza che il consumo
non fa la felicità, conosciamo una crisi di valori». Il
fatto è che nella riduzione economicista , come osserva
Arnaud Berthoud, «tutto ciò che fa la gioia di vivere
insieme e tutti i piaceri dello spettacolo sociale dove
ognuno si mostra agli altri in tutti i luoghi del mondo -
mercati, laboratori, scuole, amministrazioni, vie o piazze
pubbliche, vita domestica, luoghi di svago... sono rimossi
dalla sfera economica e collocati nella sfera della morale,
della psicologia o della politica. La sola felicità che ci
si aspetta ancora dal consumo è separata dalla felicità
degli altri e dalla gioia comune». (...)
Il progetto di una
«economia» civile o della felicità sviluppato soprattutto da
un gruppo di economisti italiani (rappresentato
principalmente da Stefano Zamagli, Luigino Bruni, Benedetto
Gui, Stefano Bartolini e Leonardo Becchetti) si ricollega
alla tradizione aristotelica e trae origine da una critica
dell'individualismo. La costruzione di una tale economia
resuscita la «publica felicità» di Antonio Genovesi e della
scuola napoletana del XVIII secolo che il trionfo
dell'economia politica scozzese ha respinto. La felicità
terrestre, in attesa della beatitudine promessa ai giusti
nell'aldilà, generata da un governo retto (buon governo) che
persegue la ricerca del bene comune era, in effetti,
l'oggetto di riflessione degli Illuministi napoletani.
Integrando il mercato, la concorrenza e la ricerca da parte
del soggetto commerciale di un proprio interesse personale,
essi non ripudiavano l'eredità del tomismo. Questi teorici
dell'economia civile sono perfettamente coscienti del
«paradosso della felicità» riscoperto dall'economista
americano Richard Easterlin. «È legge dell'universo -
scriveva Genovesi - che non si può far la nostra felicità
senza far quella degli altri». Ci sono voluti due secoli di
distruzione frenetica del pianeta grazie al «buon governo»
della mano invisibile e dell'interesse individuale eretto a
divinità per riscoprire queste verità elementari. (...)
Merci fittizie
Come aveva visto bene
Baudrillard a suo tempo, «una delle contraddizioni della
crescita è che produce beni e bisogni allo stesso tempo, ma
non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli
chiama «una pauperizzazione psicologica», uno stato di
insoddisfazione generalizzata, che, dice, «definisce la
società di crescita come l'opposto di una società di
abbondanza». La frugalità ritrovata permette di ricostruire
una società di abbondanza sulla base di quello che Ivan
Illich chiamava la «sussistenza moderna». Vale a dire, «il
modo di vita in un'economia postindustriale all'interno
della quale le persone sono riuscite a ridurre la propria
dipendenza nei confronti del mercato, e l'hanno fatto
proteggendo - con mezzi politici - un'infrastruttura in cui
tecniche e strumenti servono, essenzialmente, a creare
valori di uso non quantificato e non quantificabile dai
fabbricanti professionali di bisogni». Si tratta di uscire
dall'immaginario dello sviluppo e della crescita, e di
re-incastonare il dominio dell'economia nel sociale
attraverso una Aufhebung (toglimento/superamento).
Tuttavia, uscire
dall'immaginario economico implica rotture molto concrete.
Sarà necessario fissare regole che inquadrino e limitino
l'esplosione dell'avidità degli agenti (ricerca del
profitto, del sempre più): protezionismo ecologico e
sociale, legislazione del lavoro, limitazione della
dimensione delle imprese e così via. E in primo luogo la
«demercificazione» di quelle tre merci fittizie che sono il
lavoro, la terra e la moneta. Si sa che Karl Polanyi vedeva
nella trasformazione forzata di questi pilastri della vita
sociale in merci il momento fondante del mercato
autoregolatore. Il loro ritiro dal mercato mondializzato
segnerebbe il punto di partenza di una
reincorporazione/reinnesto dell'economia nel sociale.
Parallelamente a una lotta contro lo spirito del
capitalismo, sarà opportuno dunque favorire le imprese miste
in cui lo spirito del dono e la ricerca della giustizia
mitighino l'asprezza del mercato. Certo, per partire dallo
stato attuale e raggiungere «l'abbondanza frugale», la
transizione implica nuove regole e ibridazioni e in questo
senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei
sostenitori dell'economia solidale fino alle esortazioni
alla semplicità volontaria, possono ricevere l'appoggio
incondizionato dei partigiani della decrescita. Se il rigore
teorico (l'etica della convinzione di Max Weber) esclude i
compromessi del pensiero, il realismo politico (l'etica
della responsabilità) presuppone il compromesso per
l'azione. La concezione dell'utopia concreta della
costruzione di una società di decrescita è rivoluzionaria,
ma il programma di transizione per giungervi è
necessariamente riformista. Molte proposte «alternative» che
non rivendicano esplicitamente la decrescita possono dunque
felicemente trovare posto all'interno del programma.
Lo spirito del dono
Un elemento importante per
uscire dalle aporie del superamento della modernità è la
convivialità. Oltre ad affrontare il riciclaggio dei rifiuti
materiali, la decrescita si deve interessare alla
riabilitazione degli emarginati. Se lo scarto migliore è
quello che non è prodotto, l'emarginato migliore è quello
che la società non genera. Una società decente o conviviale
non produce esclusi. La convivialità, il cui termine Ivan
Illich prende in prestito dal grande gastronomo francese del
XVIII secolo Brillat Savarin (Le fisiologia del gusto.
Meditazioni di gastronomia trascendentale), mira appunto a
ritessere il legame sociale smagliato dall'«orrore
economico» (Rimbaud). La convivialità reintroduce lo spirito
del dono nel commercio sociale accanto alla legge della
giungla e riprende così la philia (amicizia) aristotelica,
ricordando al contempo lo spirito dell'agape cristiana.
Questa preoccupazione si ricollega appieno all'intuizione di
Marcel Mauss che nel suo articolo del 1924, Apprezzamento
sociologico del bolscevismo, sostiene, «a rischio di
apparire antiquato» di dover tornare «ai vecchi concetti
greci e latini di caritas (che oggi traduciamo così male con
carità), di philia, di koinomia, di questa "amicizia"
necessaria, di questa "comunità" che sono l'essenza delicata
della città».
È importante anche
scongiurare la rivalità mimetica e l'invidia distruttrice
che minacciano ogni società democratica. Lo spirito del
dono, fondamentale per la costruzione di una società di
decrescita, è presente in ognuna delle R che formano il
cerchio virtuoso proposto per dare vita all'utopia concreta
della società autonoma. Soprattutto nella prima R,
rivalutare, poiché indica la sostituzione dei valori della
società commerciale (la concorrenza esacerbata, il ciascuno
per sé, l'accumulo senza limiti) e della mentalità
predatrice nei rapporti con la natura, con i valori di
altruismo, di reciprocità e di rispetto dell'ambiente. Il
mito dell'inferno dalle lunghe forchette con cui si apre la
seconda parte del libro La scommessa della decrescita è
esplicito: l'abbondanza abbinata al ciascuno per sé produce
miseria, mentre la spartizione, pur nella frugalità, genera
soddisfazione in tutti, perfino gioia di vivere. La seconda
R, riconcettualizzare, insiste invece sulla necessità di
ripensare la ricchezza e la povertà. La «vera» ricchezza è
fatta di beni relazionali, quelli fondati appunto sulla
reciprocità e la non rivalità, il sapere, l'amore,
l'amicizia. Al contrario, la miseria è soprattutto psichica
e deriva dall'abbandono nella «folla solitaria», con cui la
modernità ha sostituito la comunità solidale. (...)
È imperativo ridurre il
peso del nostro modo di vita sulla biosfera, ridurre
l'impronta ecologica i cui eccessi si traducono in prestiti
richiesti alle generazioni future e all'insieme del cosmo,
ma anche al Sud del mondo. Abbiamo dunque l'obbligo di dare
in cambio ciò che si trova al centro della maggior parte
delle altre R: ridistribuire, ridurre, riutilizzare,
riciclare. Ridistribuire rimanda all'etica della
spartizione, ridurre (la propria impronta ecologica) al
rifiuto della predazione e dell'accaparramento,
riutilizzare, al rispetto per il dono ricevuto e riciclare,
alla necessità di restituire alla natura e a Gaia ciò che è
stato preso in prestito da loro.
Traduzione di Laura Pagliara
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